Fonte: Roma
di ARMIDA PARISI
È con una mostra di respiro internazionale che Capri inaugura la stagione estiva dell’arte. Fino al 14 luglio la chiesa della Certosa ospita “Locus/Solis” di Marco Bagnoli (nella foto a destra) a cura di Marina Guida. Abituato a confrontarsi con gli spazi ampi e aperti, l’artista toscano che ha esposto alla Biennale di Venezia e a Documenta di Kassel qui si misura con lo spazio sacro e realizza un’esposizione site specific leggibile come un percorso unico alla scoperta degli impalpabili intrecci fra il mondo fisico e quello psichico. Tutto ruota intorno all’enorme intelaiatura di una mongolfiera (nella foto a sinistra) montata al centro dell’abside: il volume vuoto, ancorato saldamente a una zolla di terra nera, si erge davanti al visitatore e si proietta sulla parete, avvolto da un’atmosfera sonora che evoca la presenza di uno stagno: gracidii di rane, polle d’acqua, stormire di foglie. Luogo di solitudine o luogo del sole? La voluta ambiguità del titolo rimanda alla doppia dimensione della contemplazione e della luce, alla valenza vivificante del rapporto con la natura ma anche al bisogno di superarne i limiti. È l’artista stesso a parlarne.
Cominciamo dal titolo della mostra.
«Sono partito dal libro di Ramon Roussel “Locus solus”. Ci sto meditando da diversi anni. È uno scrittore morto a Palermo nella prima metà del Novecento in circostanze misteriose. È stato un precursore del dadaismo e del surrealismo, a lui si è ispirato Breton. Sono partito da lì, poi ho fatto un gioco di parole e o ho voluto trasformarlo in “locus solis”, cioè “Luogo del sole”, da un luogo appartato di contemplazione e di scienza».
Lei ha una formazione scientifica, come la concilia con il suo essere artista?
«Sono laureato in chimica, poi ho abbandonato questi studi perché volevo portare le istanze della scienza dentro l’arte. Nella scienza vedevo dei limiti nell’immaginazione. Così provai a coniugare con l’arte le istanze che venivano dalla fisica».
Accade anche con l’opera che presenta qui alla Certosa di Capri.
«Quest’opera, la mia mongolfiera con la struttura in giunco, è dedicata ai fratelli Mongolfier. Sono loro che hanno fatto volare la prima mongolfiera a inizi Ottocento. È quello il momento in cui l’alchimia diventa chimica: dalla chimica dei gas che si scopre che l’aria è composta da idrogeno e ossigeno che sono più leggeri dell’aria: la loro proprietà è di gonfiare qualcosa e dunque di farla volare. È così che comincia la visione dall’alto».
Un’esigenza che, per la verità, l’arte ha sempre espresso, penso alle vedute a volo d’uccello o agli esperimenti di Leonardo.
« C’è da sempre per l’uomo la necessità di sollevarsi da terra, ma bisogna stare attenti perché c’è il rischio di elevare lo sguardo ma perdendo la concretezza dello stare a terra: proprio per sottolineare questo concetto ho ancorato la struttura della mongolfiera a un’ampia zolla di terra nera. Per me è importante tanto l’esigenza di spaziare e tendere verso l’alto quanto quella di non perdere il senso della realtà rimanendo attaccati alle cose concrete».
Al centro della sua mongolfiera ha posto un vaso cui corrisponde, in alto una goccia intorno alla quale si flettono i giunchi.
«Questa installazione prevede un fuoco simbolico: il vaso rimanda a questo, mentre la goccia è un richiamo all’acqua che lo spegne.
Tengo sempre a sottolineare la dinamica degli opposti. Dall’elemento rovesciato si stacca una goccia che cade nel vaso e stabilisce una relazione fra acqua e fuoco. C’è anche un lavoro sonoro che permette di sentire il ritmo costante della goccia risuona nel vaso, si sentono anche i suoni di un canneto, le rane, lo stagno. È il mistero delle corrispondenze che sollecita la riflessione e il raccoglimento, amplificati dallo spazio sacro».